Le pepite d’oro potrebbero essere il risultato di terremoti che agitano ripetutamente le vene di quarzo, grazie alle insolite proprietà elettriche del minerale. Quest’idea, sebbene difficile da dimostrare, è supportata dalle prove prodotte in laboratorio, che la rendono plausibile e in grado di spiegare anomalie a lungo trascurate.
L’oro è un metallo estremamente raro nella crosta terrestre, ma è uno dei soli sette conosciuti nello stato puro dagli antichi popoli dell’Eurasia e dell’Africa, e uno dei sei menzionati nella Bibbia. La sua rarità è dovuta in parte al fatto che talvolta forma pepite straordinariamente grandi e incredibilmente pure, attirando l’attenzione sulle vene da cui può essere estratto.
Secondo il dottor Chris Voisey dell’Università di Monash, l’oro si pensa precipiti dai fluidi caldi e ricchi d’acqua che scorrono attraverso le fessure della crosta terrestre. Man mano che questi fluidi si raffreddano o subiscono cambiamenti chimici, l’oro si separa e si accumula nelle vene di quarzo. Questa spiegazione è ampiamente accettata dalla comunità geologica, ma sorgono due interrogativi evidenti.
Perché solo il quarzo viene coinvolto in questo processo? E come è possibile che si formino oggetti così grandi e puri quando la concentrazione di oro nei fluidi è così bassa? Voisey e il suo team hanno ipotizzato che questi due aspetti potrebbero essere correlati.
Il quarzo è il minerale più comune dotato di proprietà piezoelettriche, ossia la capacità di generare elettricità quando viene sottoposto a stress. Questa caratteristica è alla base di dispositivi come orologi e accenditori. La peculiarità del quarzo risiede nel fatto che, a differenza di altri cristalli minerali, non possiede un centro di simmetria, il che lo rende elettricamente sbilanciato quando viene distorto dallo stress.
Essendo un isolante, il quarzo accumula lo stress senza poterlo scaricare, a meno che non sia presente un conduttore nelle vicinanze che permetta il movimento delle cariche. I ricercatori hanno ipotizzato che questo meccanismo potrebbe favorire l’accumulo di oro in punti specifici, attratto dal potenziale elettrico generato.
Per verificare questa teoria, i ricercatori hanno eseguito esperimenti in cui hanno esposto cristalli di quarzo a una soluzione contenente oro, agitandoli a frequenze simili a quelle dei piccoli terremoti. I risultati sono stati sorprendenti, come ha sottolineato il professor Andy Tomkins.
Il quarzo stressato non solo ha depositato elettrochimicamente l’oro sulla sua superficie, ma ha anche generato e accumulato nanoparticelle d’oro. In particolare, è stato osservato che l’oro tendeva a depositarsi sui grani già esistenti anziché formarne di nuovi, poiché il potenziale elettrico lo rendeva un attrattore per gli ioni presenti nella soluzione.
Sebbene non sia ancora confermato che questo sia il processo naturale di formazione delle pepite d’oro, sembra essere la spiegazione più plausibile finora proposta. Il team di ricerca non è riuscito a produrre pepite di grandi dimensioni, nonostante abbia utilizzato fluidi particolarmente ricchi di oro, ma è importante considerare che non disponeva di ere geologiche per condurre esperimenti a lungo termine.
Basandosi sulle osservazioni effettuate, è emerso che le dimensioni di una pepita d’oro sono direttamente proporzionali alla quantità di oro aggiuntivo che essa attira ad ogni evento sismico, quando è circondata da un fluido contenente oro.
In pratica, il quarzo agisce come una sorta di batteria naturale, con l’oro che funge da elettrodo, accumulando gradualmente sempre più oro ad ogni terremoto, come spiegato da Voisey. Pertanto, se si desidera trovare una pepita d’oro, è consigliabile cercare non solo vicino a una vena di quarzo, come comunemente si credeva, ma preferibilmente in una zona che abbia subito numerosi terremoti quando era ancora immersa in fluidi caldi.
Voisey ha anche suggerito che la piezoelettricità potrebbe essere sfruttata per il trattamento del minerale d’oro quando la natura non ha creato le pepite in modo spontaneo. Lo studio dettagliato è stato pubblicato su Nature Geoscience.
Links: