Il ruolo dell’infiammazione cerebrale nel COVID persistente

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Il Long COVID diminuisce la capacità di generazione di energia dei muscoli, il che sembra spiegare la profonda stanchezza e l’intolleranza all’esercizio che i pazienti sperimentano. (PeopleImages.com – Yuri A/Shutterstock.com)

Una proteina rilasciata durante l’infiammazione nel cervello potrebbe essere responsabile del grave affaticamento muscolare riscontrato nelle persone affette da COVID persistente, aprendo la strada a nuove possibilità di trattamento per questa condizione debilitante. Il COVID persistente è caratterizzato da sintomi come affaticamento e intolleranza all’esercizio, che possono avere un impatto significativo sulla qualità della vita dei pazienti. Studi precedenti hanno evidenziato alterazioni nelle fibre muscolari che limitano la capacità di svolgere attività fisica come in passato. Tuttavia, una recente ricerca offre speranza per il futuro nel trovare soluzioni a questo problema.

Il team di ricerca ha esaminato non solo il COVID persistente, ma anche altre condizioni come la malattia di Alzheimer e l’infezione da batteri E. coli, alla ricerca di possibili collegamenti tra l’infiammazione cerebrale e il deterioramento muscolare. In tutte queste patologie, si è osservato che il cervello può essere esposto a proteine infiammatorie che causano un accumulo di specie reattive dell’ossigeno. Queste sostanze attivano la produzione di interleuchina-6 (IL-6), una proteina del sistema immunitario che circola nel flusso sanguigno e può influenzare diversi tessuti e organi del corpo.

Attraverso studi condotti su topi e mosche della frutta, i ricercatori hanno scoperto che l’IL-6 interferisce con la capacità dei muscoli di generare energia in modo efficiente. Gli animali con proteine associate al COVID nel cervello hanno mostrato una ridotta funzionalità motoria: le mosche non erano in grado di arrampicarsi come di consueto e i topi non correvano né tanto bene né tanto a lungo quanto i topi di controllo. Il dottor Aaron Johnson, autore principale dello studio condotto presso la Washington University School of Medicine di St. Louis, ha sottolineato che questo effetto sulle prestazioni muscolari persiste anche dopo l’eliminazione dell’infezione acuta.

due immagini di fibre muscolari colorate di viola al microscopio; quelle a sinistra sono molto più intensamente colorate
In queste fibre muscolari della mosca della frutta, la colorazione viola mostra quanto bene i mitocondri stiano producendo energia. Quelle a sinistra sono di muscoli sani, mentre quelle a destra sono di muscoli esposti a IL-6.
Shuo Yang

Sebbene la ricerca sia stata condotta su modelli animali, i risultati suggeriscono che processi simili potrebbero verificarsi anche negli esseri umani. L’infiammazione cerebrale è stata associata a condizioni neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson, e livelli elevati di infiammazione sono stati riscontrati nei pazienti con COVID persistente. Questo suggerisce che la produzione di IL-6 potrebbe essere un meccanismo di difesa del cervello durante le malattie, anche se le conseguenze a lungo termine sul corpo non sono ancora del tutto chiare.

Un aspetto promettente emerso dalla ricerca è la possibilità di utilizzare farmaci già approvati che agiscono sulla via biochimica JAK-STAT attivata dall’IL-6. Questi farmaci sono attualmente impiegati per trattare condizioni infiammatorie come l’artrite reumatoide, ma potrebbero offrire nuove prospettive per gestire il COVID persistente e i suoi sintomi debilitanti. Ulteriori studi sono necessari per confermare questa ipotesi e valutare l’efficacia di tali trattamenti nei pazienti affetti da questa condizione.

Il lavoro svolto dal team di ricerca offre una luce di speranza per i pazienti affetti da COVID persistente, che spesso si trovano a fronteggiare stigma e mancanza di comprensione. L’auspicio è che questi risultati possano stimolare ulteriori ricerche cliniche e portare a nuove terapie per alleviare l’affaticamento muscolare e migliorare la qualità di vita di coloro che soffrono di questa condizione. Lo studio è stato pubblicato su Science Immunology.

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