L’interesse degli scienziati per la persistenza del SARS-CoV-2 nel corpo a lungo dopo la scomparsa dei sintomi iniziali è stato alimentato da uno studio recente che ha rivelato la presenza delle proteine virali nel plasma sanguigno fino a 14 mesi dopo l’infezione. Il team di ricerca ha analizzato campioni di plasma congelato provenienti da 171 adulti che avevano partecipato a uno studio nel 2020, principalmente individui infettati all’inizio della pandemia, prima dell’avvento dei vaccini anti-COVID-19.
Questi campioni sono stati confrontati con il plasma di 250 persone prelevato prima del 2020, in un’epoca in cui il COVID-19 non era ancora una realtà nelle nostre vite. Utilizzando una piattaforma di rilevamento, sono stati individuati segnali di tre antigeni del SARS-CoV-2: la proteina di superficie S1, la proteina nucleocapsidica e la proteina spike. Complessivamente, sono stati testati 660 campioni appartenenti al gruppo pandemico, coprendo periodi di 3-6 mesi, 6-10 mesi e 10-14 mesi dopo le infezioni iniziali da COVID-19.
È emerso che il 25% del gruppo presentava uno o più antigeni rilevabili in almeno uno dei campioni analizzati, con la proteina spike che risultava essere la più frequentemente rilevata, seguita da S1 e nucleocapside, entrambe con frequenze simili. In particolare, i pazienti che avevano richiesto cure ospedaliere durante l’infezione da COVID-19 erano quasi due volte più propensi a mostrare la presenza di antigeni nel plasma.
Un dato interessante è che tra coloro che non erano stati ricoverati, le persone che avevano riportato un peggioramento della salute erano più inclini a presentare una positività agli antigeni, suggerendo una correlazione tra la gravità della fase acuta del COVID e la persistenza virale nel tempo.
Confrontando i loro risultati con uno studio precedente che aveva individuato particelle di virus replicanti nel sangue di un paziente deceduto a causa del COVID-19, gli autori ipotizzano che il SARS-CoV-2 potrebbe diffondersi attraverso il flusso sanguigno e stabilire serbatoi protetti in determinati siti del corpo. In alternativa, suggeriscono che le infezioni più gravi potrebbero comportare una maggiore persistenza virale nel tempo, sfuggendo al sistema immunitario per periodi più lunghi.
Il dottor Michael Peluso, primo autore dello studio, ha sottolineato l’importanza dei dati raccolti, evidenziando la chiara relazione tra la gravità dell’infezione acuta da COVID e la persistenza degli antigeni nel tempo. Questo potrebbe suggerire che un carico virale più elevato all’inizio dell’infezione sia associato a una maggiore probabilità di conservazione del virus nel corpo.
Nell’appendice al lavoro, gli autori hanno identificato diverse limitazioni dello studio, tra cui la mancanza di informazioni su come i vaccini e i trattamenti antivirali potrebbero influenzare i risultati. Inoltre, la possibilità di reinfezioni da COVID potrebbe aver contribuito alla presenza di antigeni nei campioni analizzati.
Tuttavia, resta fondamentale comprendere se la persistenza del SARS-CoV-2 possa essere correlata al long COVID o a eventuali complicazioni a lungo termine. Gli autori concludono che i loro dati forniscono prove concrete della persistenza del virus fino a 14 mesi dopo l’infezione acuta, sottolineando l’importanza di approfondire la ricerca sulle manifestazioni cliniche legate a questa persistenza virale.
Lo studio è stato pubblicato su The Lancet Infectious Diseases e apre nuove prospettive per comprendere meglio le implicazioni a lungo termine dell’infezione da SARS-CoV-2 e le possibili conseguenze per la salute dei pazienti colpiti.
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