Nella celebre serie di fantascienza di Netflix, “Problema dei 3 Corpi”, alcuni dei protagonisti ricevono un enigmatico videogioco di realtà virtuale (VR). Il gioco pone il protagonista di fronte a un compito cruciale: aiutare una specie aliena a risolvere un enigma insolubile, ovvero prevedere il movimento dei tre soli del loro pianeta. Questo enigma, noto come il “problema dei tre corpi”, rappresenta una sfida apparentemente insormontabile per gli alieni simulati, costretti a sopravvivere in un mondo sconvolto dall’influenza di tre soli. Tuttavia, esistono altri pianeti ipotetici in cui la vita potrebbe emergere nonostante sfide altrettanto straordinarie.
Un’interessante proposta formulata nel 2012 dal cosmologo Dan Hooper e dall’astronomo Jason Steffen si basa sulla materia oscura come elemento chiave per la possibilità di vita su un pianeta. Mentre gli astronomi studiano l’universo osservabile, scoprono che solo circa il 5% della sua composizione è costituito da materia ordinaria. La stragrande maggioranza, il restante 95%, è rappresentata da materia oscura (circa il 27%) ed energia oscura (circa il 68%). La materia oscura è una forma di materia invisibile che interagisce solo tramite la forza gravitazionale, senza emettere luce propria. Le prove della sua esistenza si riscontrano nelle galassie e nei loro raggruppamenti.
Come descritto nel paper del 2012, quando le particelle massive debolmente interagenti (WIMPs) si annichilano, rilasciano energia. La massa di materia oscura presente nell’universo costituisce una riserva energetica enorme, circa 10^3 volte superiore all’energia prodotta dalla fusione di tutto l’idrogeno in elio. Tuttavia, la materia oscura raramente collide abbastanza da generare energia in quantità significative su scala ecologica.
Un’eccezione a questa regola potrebbe verificarsi nel caso delle particelle di materia oscura intrappolate gravitazionalmente all’interno di un pianeta. Le particelle massive debolmente interagenti (WIMPs) di materia oscura sono previste per interagire con i nuclei, perdendo momento e venendo catturate gravitazionalmente da stelle o pianeti. Una volta accumulate all’interno di un pianeta, queste particelle possono annichilarsi, generando energia che viene assorbita dal materiale circostante. Le interazioni all’interno della Terra, ad esempio, potrebbero produrre solo alcuni megawatt di energia.
Tuttavia, su pianeti più massicci situati in regioni di materia oscura densa e poco mobile, potrebbe accumularsi abbastanza materia oscura da riscaldare il pianeta al punto da mantenere l’acqua in uno stato liquido in superficie. Secondo gli studiosi, questo scenario potrebbe verificarsi anche su pianeti erranti privi di stelle. Su tali pianeti, potrebbe essere la materia oscura, anziché la luce di una stella, a rendere possibile l’emergere, l’evolversi e la sopravvivenza della vita.
Se esistono, questi pianeti potrebbero trovarsi in regioni ricche di materia oscura, come nelle galassie sferoidali nane o al centro di galassie come la Via Lattea. La vita su tali pianeti sarebbe radicalmente diversa da quella terrestre, probabilmente confinata in uno strato superficiale sopra un nucleo fuso. Tuttavia, un pianeta del genere potrebbe offrire vantaggi significativi in termini di evoluzione della vita complessa, grazie alla sua stabilità nel tempo.
Secondo gli autori del paper, se un pianeta catturasse abbastanza materia oscura, potrebbe mantenere la superficie abbastanza calda per sostenere acqua liquida per trilioni di anni, grazie alla lunga vita delle particelle di materia oscura. Questi pianeti potrebbero rappresentare l’ultimo rifugio della vita nell’universo, con prospettive di evoluzione che sfidano l’immaginazione umana.
Anche se individuare tali pianeti rimane un enigma, è plausibile che esistano mondi liberi dalle loro stelle ospiti, vaganti nello spazio interstellare, capaci di sostenere la vita in condizioni di stabilità. In tali scenari, le possibilità di evoluzione della vita sono virtualmente illimitate, aprendo la porta a forme di vita completamente diverse da quelle conosciute sulla Terra.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Journal of Cosmology and Astroparticle Physics.
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