Sono state rinvenute prove che la bioluminescenza fosse presente tra gli animali ben 540 milioni di anni fa, superando di gran lunga il record precedente. Questa scoperta non solo modifica la nostra comprensione degli oceani durante l’era Ediacarica, ma potrebbe anche gettare luce sulle ragioni che hanno portato all’evoluzione e all’ampio utilizzo della bioluminescenza oggi.
La capacità di emettere luce è diffusa in molte specie animali, funghi e organismi unicellulari. Sorprendentemente, sono stati individuati oltre 100 casi in cui questa capacità si è evoluta indipendentemente, anziché essere ereditata da un antenato comune. Alcuni organismi che non sono in grado di produrre luce da soli hanno stabilito relazioni simbiotiche con altri esseri viventi. I vantaggi di questa capacità possono essere evidenti, come ad esempio attirare partner o prede, ma la produzione di luce richiede notevole energia, sollevando interrogativi sul bilancio energetico.
La scoperta delle radici profonde della bioluminescenza tra gli Anthozoa potrebbe portare a una rivoluzione concettuale in questo ambito. Il dottor Andrea Quattrini del Museo Smithsonian ha dichiarato: “Nessuno sa esattamente perché la bioluminescenza si sia evoluta per la prima volta negli animali”. Quattrini, curatore del museo dei coralli, ha condotto ricerche sul motivo per cui alcuni coralli molli emettono luce quando vengono disturbati, un comportamento enigmatico per creature così vulnerabili.
In collaborazione con colleghi, Quattrini ha scoperto che la bioluminescenza precede i coralli molli stessi e può essere fatta risalire prima della separazione dei gorgoniani come le gorgonie e le penne di mare, membri della classe degli octocoralli. Il dottor Danielle DeLeo ha affermato: “Abbiamo voluto determinare il momento in cui è emersa la bioluminescenza, e gli octocoralli rappresentano uno dei gruppi animali più antichi conosciuti per questa caratteristica”.
Utilizzando un albero genealogico che rivela le relazioni tra 185 octocoralli, DeLeo, Quattrini e altri ricercatori hanno identificato le specie che attualmente utilizzano la bioluminescenza per indagare sulla probabilità che anche i loro antenati possedessero questa capacità. I risultati ottenuti da diversi approcci statistici convergono nell’indicare che l’octocorallo ancestrale, da cui discende l’intera classe, probabilmente era bioluminescente.
Le prove genetiche e fossili collocano l’origine di questo evento circa 540 milioni di anni fa, 273 milioni di anni prima dei crostacei ostracodi, precedentemente considerati il più antico esempio di bioluminescenza nel regno animale. Si ipotizza che la bioluminescenza abbia avuto un vantaggio evolutivo iniziale, il quale si è mantenuto nel corso dell’evoluzione, sebbene i benefici attuali possano differire da quelli del passato.
Un’ipotesi intrigante suggerisce che la bioluminescenza possa essere originariamente emersa come meccanismo per smaltire l’eccesso di ossigeno, con la luce come effetto collaterale che in seguito si è rivelato vantaggioso. Anche se questa teoria non è stata ancora provata, gli autori ritengono che sia compatibile con i dati raccolti e che la bioluminescenza potrebbe essersi evoluta in ambienti marini poco profondi, consentendo poi la diversificazione nelle profondità oceaniche.
Attualmente sono conosciute circa 3.500 specie di octocoralli, ma è probabile che ve ne siano molte altre ancora da scoprire. Il campione di 185 specie utilizzato nello studio potrebbe non essere rappresentativo di tutta la diversità presente. Ulteriori test sulla bioluminescenza sono necessari, e il team sta lavorando a un test genetico che potrebbe risolvere la questione in laboratorio.
I coralli molli delle acque basse e la maggior parte dei gorgoniani, come abitanti delle barriere coralline, sono tra le specie più vulnerabili ai cambiamenti climatici e alle minacce locali come l’inquinamento e la pesca eccessiva. Le acque più profonde, sebbene più sicure, sono comunque minacciate dalla pesca a strascico sul fondo. Gli autori sperano che le conoscenze acquisite possano contribuire alla conservazione di queste specie, sensibilizzando l’opinione pubblica sulla loro importanza e fragilità.
Lo studio è stato pubblicato su Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences.
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